Il 19 marzo
2015.
Ricordo il
falò di San Giuseppe, il fuoco alto, il fumo negli occhi e l’odore della carne
che mi dava il volta stomaco.
Ero venuta
per portarti le mie agende, volevo che leggessi, che tu capissi anche quello
che non ero mai riuscita a spiegarti. Due agende di terapia chiuse in una busta
di carta, io chiusa nel cappotto di lana. Sola.
La testa mi
gira, scambio due parole con la mia bisnonna vicino al fuoco e mi faccio
coraggio. La bisnonna mi guarda.
Ti do la
busta con le agende, tu non mi guardi neanche, io non riesco a parlare perché la
lingua mi si è incollata al palato e non ha intenzione di schiodarsi di lì. Le
gambe si fanno pesanti e tutto comincia a girare. Raccolgo le forze e, con un
cenno alla bisnonna, corro verso casa, più veloce che posso.
Ricordo
quanto è stato difficile salire le scale, non riuscivo a respirare, volevo
piangere e le lacrime non uscivano.
Dieci gocce
di Xanax e tutto sarebbe passato, dieci gocce di Xanax e non avrei avuto più le
forze di pensare. Per l’ennesima volta, dieci gocce di Xanax. Ricordo il sapore
di pompelmo sulla lingua, le gambe che cedono, poi il caos.
Mia madre
che cerca di tenermi sollevata, io che non ho le forze di muovermi, mi sento un
sacco vuoto , troppo vuoto per stare in piedi. Guardo la bisnonna disperata che
mi dice che non è colpa mia, che passerà.
Mia bisnonna
ha un vestito blu con le stelle gialle. Come cazzo si è vestita, penso.
E poi la
corsa verso l’ospedale, mio nonno e mia nonna che mi fanno domande che sento da
lontano, non capisco cosa vogliano da me. Mi chiedono se ho bevuto ma io non ho
fatto niente.
Continuano a
parlare ma io sento solo un’eco lontana.
La bisnonna
mi tiene per mano, dice che non è colpa mia.
Sì che lo è,
invece.
Ricordo l’attesa
estenuante, i medici che non arrivano, un uomo sulla porta che mi guarda di
traverso e non riesco a farlo andare via, mia nonna che si appoggia sulla
bisnonna senza vederla minimamente.
Ricordo le
corsie dell’ospedale viste dalla sedia a rotelle, l’infermiere tatuato che mi
accarezza i capelli rosa e mi chiede se ho mai visto un concerto dei Placebo.
Io che gli chiedo se gli piace il vestito della mia bisnonna e lui che mi dice
che non la vede. Non la vede. Certo che non la vede. Mia nonna è morta nel
2003. La vedo solo io.
E poi la
tac, una scatola buia dove non si può parlare ma nessuno mi ha detto che non
posso piangere, l’infermiere che cerca insistentemente le vena per il prelievo
e poi tutti a casa.
Continuo a
ripetermi che è colpa mia.
Mi ricordo
il freddo di quel 19 marzo 2015, mi ricordo gli amici di una vita che non c’erano
e che non ci sarebbero più stati.
In una notte
è cambiata la mia vita. Ho perso tutto in quelle dieci gocce di Xanax, insieme
alle agende che ti ho dato che, chissà se hai mai letto.
Mi ricordo i
giorni di solitudine che son arrivati dopo quella notte, le telefonate che non
sono mai arrivate, le visite che non ho mai ricevuto, nemmeno un abbraccio se
non quello di mia madre.
Mi ricordo
la psicologa, i tentati suicidi, le pillole, le flebo, le crisi d’astinenza.
Tutto.
Avevi promesso
di restare per sempre e non l’hai fatto,
te ne sei andato quel giorno, insieme a tutti gli altri. Insieme a me.
Quella notte
voi non c’eravate ma io sì e io non me la dimentico, non la dimenticherò mai.
Perché quella
notte ce l’ho tatuata addosso, più a fondo degli altri tatuaggi che mi porto
dietro.
Perché quella
notte io c’ero ma voi no.
Nemmeno tu.