lunedì 19 novembre 2012

Metodi insoliti



A te, che capirai

Avrei potuto fare come tutti gli altri.
Sai, avrei potuto scriverti un messaggio, lo fanno praticamente tutti. Anch’io li mando i messaggi ma, quando devo dire cose importanti, il limite dei caratteri mi mette ansia. Che poi magari vengono fuori dieci messaggi e uno si scoccia a leggerli, qualcun’altro si perde per le infinite vie telematiche e non si capisce nemmeno cos’è che volevo dire. Poi magari si perde completamente e non ti arriva mai e io, per mantenere le tradizioni, mi incazzo pure e mi faccio baciare dalla paranoia che vive sulla mia spalla. Sai, magari penso che non l’hai nemmeno aperto perché tanto se è qualcosa di importante te lo dico a voce, o ti chiamo, o magari penso che l’hai letto e te ne sei fregato perché… che ne so perché, potrebbero esserci miliardi di motivi e nella vita non si sa mai!
E tra l’altro la tastiera del mio cellulare ha gli spasmi come me e salta le lettere o le cambia, metti che ne salta o ne cambia proprio una importante e stravolge tutto il senso della storia? Uno decide di scriverti… che ne so… “Ti voglio bene, cazzo!”, poi arriva la mia tastiera agonizzante e viene fuori qualcosa tipo… non so… “Voglio be cazzo!”. Tu che capisci? Niente, appunto.
Tra le tante cose io sono pure un po’ contro le cose importanti dette per messaggio, che poi li cancelli, li perdi, cambi telefono e non li leggi mai più. A me ‘sti metodi nuovi stanno un po’ sulle palle. No, il messaggio non avrebbe fatto per me.
Avrei potuto scriverti una mail ma, anche in questo caso, ci sarebbero potute essere tante complicazioni. Tanto per cominciare avresti potuto non controllare la posta elettronica per mesi, poi magari leggi la mail in un momento sbagliato e a me prende male. Poi c’è lo spam. Non sottovalutare mai lo spam! Uno perde giornate intere a cercare di scriverti una mail, la invia, magari la connessione è avversa e ci mette il triplo del tempo e poi… bam! Nello spam! E tu non la leggi più. Potrebbero anche fotterti la password e la mail poi la riceve un hacker che io non ho mai visto in vita mia. No, la mail non avrebbe funzionato.
Magari avrei potuto dedicarti una canzone. Troppo scontato, tutti si dedicano canzoni, tante volte fanno anche schifo. È una tradizione che fa tanto GiovaniPaninariDegliAnniOttanta, quelli se le beccavano sempre le canzoni dedicate. Le radio esistevano per quello, per dedicare canzoni smielate e pure un po’ pacchiane a persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non capivano nemmeno che l’orribile regalo di cattivo gusto era per loro.
Poi non ci piacciono nemmeno le stesse canzoni. Immagina se ti avessi dedicato i Depeche Mode o i Cure. Saresti caduto in depressione e non avresti nemmeno capito bene il testo. Qualche gruppo che piace a tutti e due c’è ma non credo sarebbe stato l’ideale. Non avrei certo potuto dedicarti Orgasmatron dei Motorhead e nemmeno La canzone di Marinella del buon Faber. Forse qualche canzone adatta esiste ma, non l’ho scritta io, quindi il concetto sarebbe stato in ogni caso diverso da quello ideato nella mia testa. Si sarebbe avvicinato ma non sarebbe stato perfetto.
Avrei potuto parlarti a voce ma, io non sono brava a parlare. Poi le parole si possono fraintendere, si possono stravolgere, si possono dimenticare e ricordare completamente cambiate. Prima o poi l’età avanza, mica tra quarant’anni puoi ricordarti una cosa che ti ho detto in una giornata umida e piovosa del novembre 2012. Tu non ti ricordi nemmeno quello che ti ho detto ieri…
E le complicanze. Non dimenticarle mai! Potrebbe succedere che a me viene voglia di parlarti e tu hai da fare e quando sei libero a me la voglia è passata o ti guardo in faccia, mi viene da ridere e poi ci mettiamo a ridere tutti e due e affanculo il momento giusto! O ti dico una parola, da lì a te viene in mente che devi dirmi qualcos’altro e cambiamo argomento e poi io mi dimentico cosa ti stavo dicendo e… vai! Giù con tutti i ricordi dell’infanzia e dei traumi e delle leggende e quello che dovevo dirti non te lo dico più. E ci rimango male e non ci riprovo nemmeno.
Può capitare che un giorno vengo lì che ti voglio parlare e tu sei ubriaco e non capisci cosa voglio dirti o magari lo capisci però poi il giorno dopo non te lo ricordi più e devo ricominciare. Oppure sono ubriaca io, vengo a parlarti, sbiascico e tu non capisci o ti rendi conto che sono ubriaca e non mi prendi sul serio e io parlo a vuoto. No, i discorsi non vanno bene, sono troppo complicati e soggetti a variazioni.
Così, tra tutti gli altri eventuali milioni di metodi esistenti per lanciarti un messaggio -che no elenco se no ci perdiamo in chiacchiere inutili- ho deciso che questo è l’unico adatto. Tanto il mio blog sta lì, lo leggi quando e se vuoi, io sono tranquilla perché il peso me lo sono tolto e non ci penso più. Non c’è il rischio di perdere le mie parole perché restano incollate qui e dubito che qualcuno le rubi. Scrivere mi riesce meglio e mi imbarazza meno ed è, tutto sommato, più soddisfacente. Ti conservi questa cazzata e non c’è rischio di perderla, né tu né io. E poi io avevo bisogno di un mezzo di comunicazione stravagante e insolito, se no che figura ci faccio? Non sono mai stata una persona banale…
Comunque, tutto quello che voglio dirti è: Ti voglio bene. Tu dirai “Ma vaffanculo, tutto questo casino per ‘sta minchiata? Me lo dici tutti i giorni!”.
Lo so, ma questo è diverso perché, rispetto a quello degli altri giorni, non rischia di perdersi, di essere frainteso, stravolto, incompreso o cambiato dalla delirante tastiera del mio inutile cellulare.

 Il sottofondo ci sta sempre. Nulla di personale, nessun riferimento nel teso. Solo una questione di ricordi che condivido con te...

venerdì 16 novembre 2012

Violarancio e i suoi gatti

Violarancio ha tanti gatti, le si strusciano sui piedi, si accoccolano sulle sue gambe. Violarancio se ne frega se fa freddo o fa caldo, lei ha i suoi gatti. Non le importa se fuori piove, nevica o c'è il sole, se la sua acconciatura si rovinerà per colpa dell'umido, tanto lei non esce, ha i suoi gatti e se ne frega.
Il pelo dappertutto, sui vestiti e sui divani, Violarancio fissa il vuoto, beve caffè e accarezza i suoi gatti. Le dicono che casa sua puzza, che i mobili sono rovinati e le poltrone consumate, che i suoi gatti pisciano in giro e non si respira, Violarancio se ne fotte, lei a casa sua non vuole nessuno. Solo lei e i gatti.
Violarancio aveva una coperta, quando isieme a lei non ci dormivano solo i gatti. Aveva un letto che divideva con qualcuno che la riscaldava e le si strusciava addosso come i gatti. Poi un giorno la porta è rimasta aperta, quel qualcuno è uscito e non è mai più tornato. Violarancio non apre mai le porte, nemmeno le finestre, qualcuno potrebbe saper volare.
Violarancio aveva un comodino, pieno di lettere e sogni conservati, ce ne metteva uno ogni giorno, li collezionava e ogni tanto li guardava. Era bello guardare i sogni dormire sereni nel cassetto, ci stavano proprio bene lì!
Poi un giorno Violarancio ha cambiato casa e il comodino gliel'hanno perso quegli stronzi della ditta dei traslochi. Non ha più il comodino, il cassetto e insieme a loro anche tutti i suoi schifosissimi sogni.
Violarancio odia i comodini, odia i cassetti, a casa nuova non ne ha, tanto se non ci metti i sogni i cassetti non servono a niente.
Violarancio ha una casa nuova, tende graffiate, porte chiuse e nessun comodino del cazzo. Ha i suoi gatti che le pisciano in giro e le si strusciano sui piedi.
Violarancio sta bene così, non vuole nient'altro.
Violarancio ha una pistola che forse userà, la tiene sulle gambe insieme ai gatti.
Violarancio ha una pistola e tanti gatti sulle gambe, un giorno forse sbaglierà cosa accarezzare, la porta la dovranno aprire per forza. I gatti se ne andranno, Violarancio pure.

lunedì 5 novembre 2012

Immaginavo l'adolescenza

Quando ero piccola mi piaceva guardare mia zia mentre si preparava per uscire con i suoi amici. Aveva vent'anni e io appena quattro, forse cinque. Alzava il volume dello stereo al massimo, con grande disappunto di mia nonna, saltellava da una parte all'altra della stanza alla ricerca dei suoi vestiti neri e urlava parole, a me incomprensibili, di gruppi come i Cure o i Cult. Il massimo per me era quando optava per i Lifiba, così potevo sbraitare anch'io con lei.
Poi qualcuno bussava alla porta e, se non era mia nonna pronta per il cazziatone giornaliero, era il suo ragazzo avvolto in un paio di pantaloni di pelle e bandanda rossa in testa. Arrivava a bordo della sua fedele moto che metteva tanta ansia a nonna e che rombava più di un temporale in campagna.
Uscivano con i loro amici, mia zia aveva la stanza piena di fotografie scattate con loro e bilgiettini scritti per ogni occasione. E io, che avevo quattro anni o giù di lì, immaginavo la mia adolescenza così, con una barca di amici e fotografie sgualcite con le loro dediche dietro e bigliettini scritti per ogni occasione. Immaginavo che anch'io avrei avuto un ragazzo che sembrava uscito da un video dei Motorhead, immaginavo "ti amo" scritti su foglietti accartocciati e sussurati al limite di un falò incandescente la notte di San Lorenzo.
La mia adolescenza la immaginavo come un periodo fantastico di telefonate lunghe giornate intere con il telefono fisso e mia madre che, come mia nonna, mi avrebbe rinfacciato l'importo astronomico della bolletta, immaginavo un'adolescenza piena di appuntamenti con i miei amici fissati il giorno prima, perchè i cellulari non ci sarebbero stati e nemmeno le mail, magari ci saremmo incontrati sempre al solito posto. Immaginavo notti passate fuori e i miei genitori incazzati al mio ritorno perchè preoccupati non sapendo dove fossi e non avendo mezzi per rintracciarmi. Immaginavo concerti immortalati con i rullini che se poco poco avesser preso sole avrebbero mandato a puttane tutti i nostri ricordi. Immaginavo chiodi di pelle consumati come quelli di mia zia e dei suoi amici, immaginavo che avremmo portato anfibi ai piedi e avremmo collezionato bottiglie vuote di birra. Immaginavo nottate passate fuori a cantare con la chitarra e nessun cd, immaginavo audiocassette doppiate, con i titoli delle canzoni scritti a penna e copertine improvvisate, regalate, prestate e mai riavute indietro.
Immaginavo di scrivere lettere ai miei amici e ai miei amori occasionali, immaginavo di riceverle e di conservare tutto da qualche parte, in una scatola o in una busta.
E invece no, perchè ho avuto la sfiga di ritrovarmi adolescente in un'epoca che manda messaggi, scrive mail e non masterizza nemmeno più cd, la muscia la scarica da internet. Ho avuto la sfiga di finire in una generazione che le foto non le sviluppa, le posta su facebook e i bilgiettini non te li scrive manco per il cazzo!
Sono finita in un posto in cui trovare un chiodo di pelle è come cercare la città di Atlantide sporfondata chissà dove, al punto da chiederti se siano mai esisititi davvero, i chiodi di pelle, o se li hai solo immaginati come tutto il resto.
E mi ritrovo oggi, che ho quasi vent'anni e mia zia quacuno in più, ad ascoltare Sweet Soul Sister dei Cult, assaporando i colori sbiaditi di un video che mi regala immagini di un'epoca che trasuda apicità e di cui io ho nostalgia. Eppure io l'adolescenza me la sono dovuta subire con i cellulatri e le chat e la musica scaricata sull'i-pod. Ma non mi vergogno ad ammettere che, ogni tanto, ci ripenso e ci spero ancora che la mia stanza si possa riempire di fotografie e bigliettini e che qualcuno il "ti amo" me lo dica vicino a un falò o scritto sulla copertina improvvisata di un'audiocassetta.