giovedì 28 novembre 2013

I racconti dell'Isola Grigia. O di quando Donna Filomena si ricordò di me.



Donna Filomena l’ho conosciuta quando ero pazz… malat… quando non ero, ecco. La incontravo tutte le volte, quando ancora avevo bisogno che mi curassero.
Donna Filomena indossava cappellini colorati, sempre piena di fiori sulla testa e sui vestiti. Lo sguardo luccicante, piccola piccola, nel suo cappottino fiorato. E i cappellini.
Era l’unica che Piero e Pierino, il segretario dalla doppia personalità, chiamavano per nome. Tutti gli altri erano destinati a chiamarsi Pierino, a prescindere da sesso ed età.
Donna Filomena incantava tutti.
Ci piaceva Donna Filomena.
Uno sprazzo di colore in quel posto buio.
L’unico colore per noi che eravamo bui dentro.
Donna Filomena vive in un mondo tutto suo. Ha il suo Meraviglioso Mondo e non ci esce mai. Non si ricorda nomi, volti e avvenimenti. Nel suo Meraviglioso Mondo il tempo non passa mai.
Oggi ho incontrato Donna Filomena, dopo quasi un anno.
L’ho salutata senza sperare troppo che mi riconoscesse. Il cappellino a fiori celeste e il cappotto rosa. Come la prima volta che l’ho vista in quella stanza grigia, in preda agli spasmi.
Io nascondevo ferite sulla pancia e sui polsi,  Donna Filomena non lo so, ma ce le aveva pure lei le ferite nascoste, forse dentro.
Donna Filomena si è fermata a guardarmi, pure io mi sono fermata.
Ha sorriso come sempre e,con occhi sognanti, ha detto: «Signorina dei Tic!».
Mi ha riconosciuta, cazzo! Si ricorda di me!
«Donna Filomena…».
Si è avvicinata piano e mi ha preso la mano: «Ma… non ce li hai più?».
Ho scosso la testa e ho accennato un sorriso.
Gli occhi hanno brillato: «Siete guarita!».
Non abbiamo detto niente, sorridevamo e basta.
«Non vi ho più vista Signorina…» ha trattenuto tra i denti l’appellativo “dei Tic”, del resto, non lo sono più.
«Ho finito Donna Filomena, non sono più in terapia da quasi un anno».
Ha tirato fuori un fazzoletto a fiori dalla tasca del cappotto e l’ha piegato.
«Bene, bene… quindi non vi vedremo più all’Isola Grigia?».
Ho scosso la testa, ripensando a quel posto.
Il centro d’igiene mentale. Il S.I.M. Noi lo chiamavamo Isola Grigia, gli altri solo Il Posto dei Pazzi.
Era un’ Isola sospesa nel tempo per noi,  per il segretario Piero e Pierino erano sempre le 19.00, qualunque fosse l’ora esatta. Ed era davvero tutto grigio, poi ogni tanto qualcuno di noi si colorava e se ne andava via.
È successo pure a me. Quando sono arrivata avevo la pelle bianca e i vestiti neri. Quando sono andata via avevo i jeans e il maglione rosso e i capelli del mio colore naturale.
Solo Donna Filomena è sempre stata colorata. Chissà che cazzo ci fa ancora sull’Isola Grigia.
«Bene, bene… restate così colorata Signorina… Signorina… come la posso chiamare adesso?».
Ci ha pensato su mordendosi il labbro e poi, battendosi una mano sulla testa: «Lo so! Signorina dei Colori!» ha sorriso.
«Mi raccomando, non torni più sull’Isola, ci manca tanto ma ci ricordiamo di lei. Siamo contenti che siete andata via… vuol dire che è guarita».
Donna Filomena mi ha stretta forte, mi arriva appena al petto.
«Buona vita Signorina dei Colori!».
Se n’è andata così, con queste parole, Donna Filomena.

Grazie Donna Filomena, grazie davvero.
Ora che sono guarita lo so, questo è il Mondo Colorato. Ed è bellissimo.
Lo è anche perché Lei, che non si ricorda di nessuno, si è ricordata di me. Dopo un anno.
L’aspetto, insieme agli altri,  Donna Filomena alle porte di questo Mondo. Anch’io mi ricordo di voi.

mercoledì 27 novembre 2013

Il Popolo dello Studio Medico



Lo studio del medico è diventato un luogo familiare. Da una settimana a questa parte sono una aficionada del posto.
Comincio a riconoscere i pazienti abituali e quelli che compaiono saltuariamente.
Ho imparato a distinguere le categorie, i volti, persino le loro malattie. Siamo come pesci in un acquario.
Qualcuno scambia chiacchiere per ammazzare il tempo, qualcun altro perché realmente interessato a fare amicizia, qualcun altro ancora per pure curiosità.
C’è Signora Più Malata, avrà una cinquantina d’anni, lei ha sempre le malattie che hanno anche gli altri. Ce le ha tutte. Ma a lei sono sempre peggio. Nessuno può capirla. Lei ha gli stessi sintomi di tutti gli altri ma, sempre più acuti.
Poi c’è Ragazza Incinta, viene tutti i giorni, ha bisogno di sentirsi dire che suo figlio sta bene. Non ha ancora realizzato che nause e stanchezza sono normali, non c’è nulla di anormale. Vuole solo essere rassicurata. Si accarezza la pancia e parla con suo figlio/a, ancora non sa. Pensa a come arredare la sua cameretta, si regge la pancia appena accennata con tutte e due le mani, si accarezza e chiede ai suoi Vicini di Sedia se vogliono sentire scalciarlo.
Signor Acido le fa notare che nonsisenteuncazzo perché è presto, forse il bambino/a neppure ce le ha le gambe. Ragazza Incinta rimane un po’ delusa e si volta dall’altro lato alla ricerca di un Vicino di Sedia più accondiscendente.
Signor Acido è così, ha il diabete, gli hanno tolto i dolci e pure quel poco di zucchero che aveva nel cuore. Bestemmia sempre, ci odia tutti, odia pure il medico che cimettesempreunsaccomachecazzoglidiceaipazienti?! 
Singor Acido ha sempre fretta. Non ha nessuno ad aspettarlo a casa, tranne la sua sedia e il giornale. Un vaffanculo ed esce a prendere aria chesièrottoilcazzo.
Gli sorrido e sfancula pure me scansando la Coppia Anziano Amore che è appena entrata.
Sono anziani per davvero ma entrano tenendosi per mano e si danno i baci mentre attendono.
Marito Anziano Amore è quello malato, sua moglie gli fa solo compagnia. Luihasolomelosa?
Sì Moglie Anziano Amore, lo so, me lo dice tutte le mattine.
Haunamalattiagravelosa? So pure questo. 
Sorrido perché Coppia Anziano Amore mi fa tanta tenerezza, li invidio. Lei gli accarezza i capelli e lui si accartoccia su sé stesso. Sembra un mucchio di stracci bagnati. I vestiti sono troppo grandi per lui o forse è lui che è troppo piccolo per i vestiti.
Signor Bastone tamburella con la gamba rigida sul pavimento. Se la massaggia che stagambarompeassai. Tiene gli occhiali scuri pure nella sala d’attesa illuminata a festa. Lalucerompeassaipurelei.
Non è infastidito, solo stanco. Ogni tanto si appisola, si tiene gli occhiali per non farsi vedere.
Poi ci sono i pazienti del giorno, quelli che non vediamo mai e tutti ci chiediamo chi sono, soprattutto Signora Più Malata, alla ricerca di qualche nuovo adepto a cui rubare le malattie.
Signorina Vestita Bene si siede tra Signor Bastone e Singora Più Malata. Cosaèvenutaafare? La domanda di Signora Più Malata è d’obbligo.
È venuta per una ricetta, no, non è per lei è per suo padre. Signora Più Malata resta un po’ delusa, Signor Bastone sonnecchia di nuovo. Alza appena la testa sentendo Signor Acido smadonnare dall’altra fila di sedie. Apre un po’ l’occhio e si massaggia lagambacherompeassai.
Qualcun altro si siede ma non incuriosisce nessuno, resta nell’ombra a farsi i cazzi suoi.
Poi ci sono io che mi dondolo sulla sedia, ogni tanto mi gratto il bracciochemivogliostaccareamorsi, ogni tanto mi alzo ed esco a fumare.
Coppia Anziano Amore mi racconta della sua gioventù. Ascolto distratta, sono troppo presa dalle loro mani rugose intrecciate.
Nuovi pazienti entrano. Mamma Stanca entra con Bimba Bianchiccia. Si siedono e le dice di stare buona.
Signor Acido borbotta qualcosa sull’orarioecchecazzo!
Bimba Bianchiccia si avvicina piano a me, crede che non la veda. Mi spunta affianco a mi saluta.
Le sorrido e mi osserva interessata.
«Sei malata?» mi chiede.
«Forse» rispondo sospirando.
«Io c’ho i Mostri» la guardo interrogativa.
«Si mangiano le cose che c’ho dentro. Sono i Mostri che ogni tanto si spostano e mi danno fastidio».
Si toglie il cappellino di lana e noto i capelli corti.
Ora capisco di che Mostri parla.
Non so che dire.
Mi accarezza la guancia e mi dice di non preoccuparmi.
«Poi guariamo tutt’e due» dice.
Mamma Stanca la chiama, non vuole che stia con me. Le dico di non preoccuparsi, che non mi da fastidio. Quasi sollevata, la lascia fare.
«Posso sedermi in braccio a te?» mi guarda con gli occhioni chiari.
«Sì» rispondo piano.
Si siede sulle mia gambe e mi tocca i capelli, come si fa con le bambole.
«Sei bella» mi sussurra.
Le sorrido incerta e le faccio una carezza sulla testolina rasata.
Singor Acido è finalmente entrato nello studio del medico, eraoramannagghjemuart!
Coppia Anziano Amore continua a tenersi per mano.
Signora Più Malata è andata via, Singor Bastone attende il suo turno.
Signorina Vestita Bene è sparita.
Bambina che ha i Mostri continua ad accarezzarmi, si accoccola sul mio petto e mi abbraccia.
L’abbraccio anch’io e restiamo così ad aspettare il nostro osservando la gente che entra ed esce dalla sala d’attesa.
Neppure la conosco Bambina che ha i Mostri ma le voglio bene. So che la vedrò spesso, tanto vale fare amicizia.
«Posso accarezzarti?» le dico di sì e la stringo un po’ di più.
È così piccola.
Coppia Anziano Amore si abbaraccia pure lei.
Ce ne stiamo così abbracciati in questa sala d’attesa giallina e asettica, in attesa delle sentenze.
Chi più, chi meno, siamo tutti malati.
Ci teniamo caldi e stretti in questa giornata fredda.
Chi aspetta il sole a riscaldarlo, chi la neve a congelarlo per sempre.
Noi aspettiamo che un raggio caldo ci svegli.

mercoledì 24 luglio 2013

Ubriachi sulla luna. O di due suicidi.



I problemi cominciarono quando diventarono grandi e non se ne accorsero, quando dovettero buttare all’aria le macchinine e distruggere la casetta di cartoni.
Diego fissava il soffitto mentre Marta arrotolava un po’ d’erba nella cartina. Le pareti di legno trasudavano ansia.
“Guardaci Marta, guarda come siamo ridotti!”. Gli occhi verdi della ragazza si socchiusero, sospirò e si mise a sedere sul materasso che campeggiava sul pavimento.
Il fumo dell’incenso impregnava i cuscini buttati qua e là, una candela piangeva in un angolo le sue ultime lacrime di cera.
“Diè… mi ami?” tirò una boccata dallo spinello e si scorticò un po’ di smalto rosso dall’unghia dell’indice.
“Che cazzo di domande fai?” Diego le sfiorò un braccio e le tolse la sigaretta dalle dita, un po’ di cenere cadde sulla maglietta bucata del ragazzo. Marta si passò una mano sul viso macchiandosi di mascara le mani piccole e consumate.
“Non abbiamo concluso un cazzo Marta, io non ho concluso un cazzo” affondò la faccia sul cuscino sperando di soffocare.
Le lacrime rigarono il volto della ragazza, mordicchiava le perline colorate dei suoi braccialetti ma, in fondo, sperava di prendere a morsi la sua stessa vita.
“Marta… che cazzo piangi?” Diego si mise a sedere e le cinse le spalle col braccio. “Oh e dai…”
“Scusa Diè” si scostò le ciocche nere dagli occhi e affondo nel suo petto.
“Marta che ce ne frega, non ce ne frega un cazzo! Ci hanno tolto tutto ma, vaffanculo noi ci siamo ancora”
“E se te ne vai Diè? Se te ne vai che cazzo ci resta?” lasciò che il fumo le raschiasse la gola.
“Io sto qua”. Marta sorrise.
I Gogol Bordello rendevano il quadretto credibile. Trough the roof and underground.
“Sai cos’è Diè… i problemi sono cominciati quando abbiamo scoperto che i mostri non erano sotto il letto ma tutt’intorno. E l’abbiamo scoperto troppo presto”.
Diego annuì, infilò una mano nei pantaloni della ragazza e la tirò a sé.
“Non importa, teniamoceli questi cazzo di mostri, facciamoceli amici e poi andiamo ubriachi sulla luna”
Marta sollevò la maglietta di Diego e lo baciò sul petto “Ubriachi sulla luna?”
Il ragazzo imbronciò il labbro come fanno i bambini “Io qua non ci voglio stare…”
“Nemmeno io” disse lei accarezzandogli i capelli.
“E allora ubriachiamoci sulla luna”


Qualcuno piange al funerale di due poveri stronzi. Qualcuno nemmeno si ricorda di Marta e Diego. Qualcun altro li ricorda come quelli vestiti male.
Qualcuno porta i fiori, qualcuno una bottiglia di vino. Almeno avranno quello che volevano.
Almeno ora sono ubriachi sulla luna.

sabato 29 giugno 2013

Questa sono Io e mi tengo volentieri



No, questa volta non funzioneranno. I vostri piani non funzioneranno.
Non riuscirete ancora una volta a bloccarmi e a decidere voi per me. Sono uscita dalla mia gabbia, ho combattuto per piegare le sbarre e, ora che ci sono riuscita, no, non mi fermerete.
Mi sto cercando e mi sto trovando, con molta calma ma, posso farcela.
E non mi importa più di quello che pensate del mio carattere, dei miei voti, del mio menefreghismo e della mia psicolabilità. Io sono Io.
Io non sono nessun’altro che voi vogliate, non sono chi è stato prima di me e non lo sarà mai.
Io non sono mia madre, non sono mia zia e non sono nemmeno mio padre, mia nonna e mio nonno.
Io non sono più nemmeno Christine.
Io sono Sara.
Sara sa quello che vuole, l’ha sempre saputo e non se l’è mai preso per compiacervi ma, ora basta, è finita.
Non starò più a raccontarvi di storie interrotte e storie sbagliate, ora vi racconterò solo di storie che vanno come devono andare perché Io decido come devono andare e ce le faccio andare Io in quella direzione!
Sara ha sempre voluto essere Sara, la verità è che non le avete mai dato la possibilità di farlo.
Ora, possibilità o no, io mi riprendo ciò che è mio. Me ne fotto dei vostri “Non vali niente, siamo preoccupati per te, non pensi al futuro, non sai cosa vuoi, non diventerai nessuno, non sei come tua madre, tua zia e come noi”. Me ne fotto dei vostri “Non puoi vivere così, non puoi andartene, non puoi viaggiare, non puoi lavorare, non puoi studiare, non puoi”. Me ne fotto dei vostri “Fallo per me, fallo per te, fallo per noi, fallo per loro”. Me ne fotto dei vostri “Non ti impegni, non ci provi, impegnati, sforzati, concentrati, chiudi, apri, metti, togli, esci, non uscire, resta qua, fatti degli amici, pensi solo agli amici”.
Me ne fotto e basta.
Ora io sono qui e sono Io.
Lo so Io cosa e come fare, lo so Io e basta.
Che vi piaccia o no Questa sono Io.
Non faccio così schifo come ho sempre creduto, non sono un disastro totale.
Voglio guardarmi allo specchio e far fuori tutti i miei pseudonimi.
Voglio presentarmi al mondo come Sara, perché Questa sono Io.
E mi tengo volentieri.

martedì 14 maggio 2013

Il corpo che non vuoi



Corpi disfatti, decadenti. Corpi imperfetti, incompleti. Corpi abbozzati e dimenticati.
Ne ho avuto milioni, membra abbandonate nei cassetti della memoria.
Li ho lasciati lì come gusci vuoti, li ho cambiati, ci ho provato con tutta me stessa ma nessuno mi ha mai soddisfatta.
La difficoltà del guardarsi allo specchio è la peggiore. La consapevolezza di non avere il contenitore giusto.
Scatole, dentro scatole. Scatole cinesi che conservano minuscoli agglomerati di desideri e dolcezze. Io che non sono quello che sembro, io che non sono quello che si aspettano. Io che non sono e forse non sarò mai.
Riempirsi di vane speranze e vana gloria. Riempirsi per non sentire il peso della leggerezza. Ridere per non lasciare spazio al vuoto e sentire quant’è ingombrante.
Io che ho un corpo e non l’ho mai voluto. Troppo esile, mi piego al vento che mi porta altrove.
Io che dovrei essere altrove e sono qui a raccontare. Io che racconto e non parlo.
Io che ho decorato questo tempio in rovina, l’ho inciso coi coltelli e ci ho guardato dentro e ci ho trovato solo il fumo delle mie mancanze.
E il macigno delle parole altrui che grava sulle spalle malandate, le ossa fragili che, lo so si spezzeranno.
L’ansia di gonfiare quest’armatura trasparente, l’ansia di vedere la pelle bianca tendersi fino a prendere nuova forma.
Ingoio storie dimenticate, ingoio rancori, mando giù bocconi amari. Mando giù quello che mi passa davanti per non sentirmi poi così magra come dicono.
La pazzia di voler essere meno filiforme. La volontà di avere delle curve su questo rettilineo indecente.
E reprimo i conati che si affacciano alla gola ogni volta che spingo qualcosa nell’esofago. Mi costringo a non farlo per loro, per me. Per me e per loro.
Mi costringo a fare quello che queste gambe di stoffa rifiutano per essere normale e non sparire.
E rimando indietro i conati per non sentirmi in colpa.
E rimando indietro le lacrime a ogni parola contro di me che mi si mette di traverso come un coltello tra gli occhi e i pensieri. E rimando indietro tutti i “vaffanculo” che avrei voluto urlare ogni volta che qualcuno mi ha rinfacciato di essere piccola come sono.
Si rifiuta il mio stomaco e mi rifiuto io di andare contro i vostri malsani desideri. Vi assecondo e mi assecondo. Mi sfondo e mi affondo. Fino all’ultimo boccone.
Questo è il corpo che ho e non posso cambiarlo. Questo è il mio corpo e me lo devo tenere.
Questo è il mio corpo, il corpo che non vuoi e il corpo che non voglio.

venerdì 19 aprile 2013

Memorie di una patetica non-atletica



Sin da quando ero piccola sono sempre stata un maschiaccio. Nessuno diceva mai “Guarda che bella bambina!”, ero sempre quella con i capelli corti che odiava le gonne. I fiocchetti mi stavano profondamente sul cazzo.
Non sono mai stata un pezzo di gnocca, generalmente sono quella che NoSaiTiVedoPiùComeUn’Amica, quella a cui puoi dire che vuoi fotterti quella col culo bello e che io il culo bello non ce l’ho.
La prestanza fisica poi non l’ho mai avuta. Io da piccola disegnavo e leggevo, alla bambole la testa la staccavo a morsi.
All’asilo entravo nel panico quando ci portavano a giocare in giardino, lo scivolo mi metteva ansia perché non ci sapevo salire, l’altalena mi inquietava e quella che girava andava sempre troppo forte per i miei gusti.
Al gioco del fazzoletto non mi ci facevano nemmeno partecipare perché non correvo abbastanza, ecco perché le giornate di sole mi facevano schifo. “Andiamo fuori in giardino” era sinonimo di “Gli altri giocano, tu sta’ ferma sulla panchina fin quando non rientriamo” e così parlavo alle lucertole.
Nel frattempo c’era chi, nella mia famiglia, si ostinava a vedere atleticità pervadere il mio corpo e mi prospettava un futuro da ballerina alla Scala.
In realtà le lezioni di danza non promettevano niente di buono per la ragazzina con la frangetta negli occhi. Io stavo dietro e non dovevo nemmeno muovermi troppo, ero troppo maschile e se non mi si vedeva troppo era meglio per tutti. E poi ero goffa, impacciata come un elefantino in tutù.
Alle elementari beh… non vale nemmeno la pena di dirlo che ai Giochi della Gioventù non mi ci portavano SeNoPoiPerdevamo.
Con gli anni le lezioni di danza sono andate peggiorando, più crescevo e più diventavo maschile. Io non ero fatta per essere una ballerina, non ero abbastanza carina per farlo.
Crescendo ho imparato a stare seduta per ore intere senza alzare gli occhi dai libri, mi isolavo e le giornate passavano.
Il calcio non mi piace, il basket non mi si addice, la danza è troppo femminile per me, lo skateboard mi ha procurato solo un mucchio di cicatrici, il pugilato non me l’hanno mai fatto fare, il nuoto mi inquieta e in bicicletta non ci so andare.
Ho tentato danza del ventre piena di entusiasmo e voglia di diventare una sensualissima e voluttuosa ballerina con tanto di velo e sonaglini. La verità è che pure oggi sono ancora troppo maschile e incriccata. Non riesco nemmeno a toccarmi la punta delle dita con le mani!
A vent’anni, ho tentato una partita basket, con unico risultato la disfatta totale, una faccia incazzata PerchèCiCredoNelleCoseCheFaccio e la consapevolezza nel cuore che è meglio quando guardo e non partecipo.
Io non sono fatta per muovermi, non sono fatta per saltare e correre e ballare, non ho il fisico e manco la testa. Sono così traumatizzata dall’essere la peggiore che lo sono.
Io sono quella che è sempre andata bene a scuola, che scrive, al massimo disegna. A parte le mani non ho mai saputo muovere altro.
Sono ancora quella che sembra un maschio, che odia i tacchi e tutte quelle stronzate da femmina, sono quella che a quindici anni si vestiva da uomo PerchèSiSentivaMeglio. Sono quella che si siede a gambe aperte e beve birra in quantità industriali, quella che se si incazza ti urla dietro e ti prende a parolacce, nel peggiore dei casi a schiaffi e gomitate. Io la femminilità non l’ho mai sfiorata nemmeno con un dito.
Non ho un bel fisico, non sono bella fuori e forse manco dentro. Magari ho un bel cervello.
La verità è che non sono portata, quando ero piccola ero quella che odiava le principesse e tifava per i cattivi. Io più che il principe azzurro sognavo di sputargli in un occhio, fottergli il cavallo e scappare nei boschi.
La verità è che nessuno si ricorderà mai di me per qualche abilità particolare.
La verità è che io non sarò mai una ballerina, una pattinatrice sul ghiaccio, una tennista o una pallavolista.
La verità è che gli sport mi deprimono e preferisco iscrivermi alla maratona del libro.

lunedì 15 aprile 2013

Graffi e porcellana

Mi sento come una delle bambole di porcellana di mia madre che mi fanno tanta paura. Più guardo la mia immagine riflessa nello specchio e più il biancore mi inquieta. E’ un colore sadico e malato, fa male e gli occhi sono vitrei. Se avessi un abito vittoriano potrei sedermi sul divano e confondermi in mezzo a loro, massificarmi e scioglermi nella mia stessa fobia. Potrei acconciarmi i capelli, boccoli dorati e adagiarmi su un’altalena come la bambolina che abita quella maledetta credenzina. E’ tutto piccolo e perfetto in questo microcosmo fittizio, ogni pupazzetto al suo posto, ogni esserino con il suo pettine e i suoi vestitini e il suo dondolo-altalena-cuscino-divanettodimmerda. Hanno tutti un ruolo in questa casa di bambola fatta a misura di orrore. Se ne stanno a fissarmi con i loro occhietti spenti e lucidi che assomigliano tanto ai miei. Dovrei mettere un cappello appariscente come quella bambola col vestito verde e la pelle perfetta che si affaccia dalla mensola, o magari come quella stesa sul suo divanetto col vestito rosa antico. Assomiglio a loro ma non siamo uguali. E’ tutto così schifosamente finto e perfetto e inquietante. E loro sono tutte bellissime, con i loro abiti sfarzosi i capelli perfetti e le mani lisce e rosee, come le loro guanciotte del cazzo. Sono io che sono imperfetta in questo ammasso di porcellana, con le cicatrici sulla pelle e le occhiaie profonde, con i capelli in disordine e le guance segnate. Sono io che sono imperfetta in questo cumulo di bellezza finta, senza calzini bianchi col merletto e scarpette di vernice. Ho solo delle stupide ciabattine da pin-up con le ciliegine bianche e la gomma semiscollata dal caldo e, no, non ce li ho i calzini bianchi col merletto. Loro avranno sempre qualcuno a guardarle e a pettinare i loro capelli e a lisciare i loro vestiti. Io i capelli non li pettino nemmeno da sola.

mercoledì 13 febbraio 2013

Oltre lo Specchio

Non si ricorda, non si ricorda niente, eppure le viene da piangere. Piange. C'è qualcosa che la fa piangere e che non sa cosa sia. Le mani tremano, troppo persino per tenere in mano un bicchiere senza disturggelo in mille pezzi e poi sentirsi in colpa.
"I bleed enough" Corgan deve stare zitto ma lei si ostina a farlo cantare, le fa male, la musica degli Smashing Pumkins non le fa bene ma non riesce a farla smettere. Tanto continua nella sua testa, se la sente nelle vene.
Se li vede gli occhi sbarrati nel vuoto, se le sente le voci nella testa che la straziano, le tempie che pulsano e le mani che non vogliono stare ferme. I motivi le sfuggono, le sfuggono sempre.
Questa è una di quelle giornate in cui si aprirebbe volentieri la pelle per vedere se dentro è viva, ci sono giornate come queste in cui ne dubita profondamente. Si trattiene, stringe i denti e sta buona ma le lacrime scendono da sole e non può farci niente.
Christine aveva tante cose da raccontare, qualcuno s'è portato tutto, i ricordi, le speranze e l'affetto. A Christine non è rimasto un cazzo. Per Christine non resta mai un cazzo. Solo i dolori e le voci nella testa, la voglia di farsi male e le lacrime.
Si guarda allo specchio e le viene da vomitare, C'è qualcosa Oltre lo Specchio che le parla, ne sa più di lei e questo fa male, più male dei tagli che non può infliggersi perchè l'ha promesso.
Oltre lo Specchio c'è qualcosa che scalcia, che la odia e la ama, che la insulta e la sgrida. Ce l'hanno con lei Oltre lo specchio. La detestano Oltre lo specchio.
"Quandè che sarai libera Christine? Quand'è che uscirai dalle paranoie del cazzo, Christine?" "Stai zitta, non lo so, non lo so, non lo so...". Trema e piange.
"Quand'è che ti schioppi le vene, eh? Quand'è che tiri fuori i coglioni e ti levi di mezzo, Christine?". Ha paura quando sente queste cose, si preme la mani sulle orecchie e dondola, prima o poi smette, prima o poi...
"Quand'è che ti arrendi a te stessa Christine?". "Vaffanculo!". Christine sbotta perchè non ce la fa, vorrebbe avventarsi contro qualcuno, mordersi, sbattere la testa contro un muro, distruggere tutto quello che ha davanti. Vorrebbe tirare un pugno a quel fottutissimo Specchio. A quelle stornze Oltre lo Specchio, prenderle a morsi finchè nonn schiattano. Non lo sa perchè, ma la farebbe sentire meglio. Il dolore fa sempre meglio. Invece resta in un angolo a piangere rannicchiata sulle ginocchia.
Christine si guarda allo specchio, guarda le guance scavate e gli occhi gonfi. Le sembra di vedere una rana. Christine si fa schifo, si martorierebbe pur di non vedere quello strazio nello Specchio. Christine fa schifo, si nasconde dietro chili di matita per non guardarsi a fondo. Nessuno deve vedere, tanto nessuno vede.
Odia gli specchi. Odia lo Specchio. Christine prima o poi lo romperà quello Specchio del cazzo.

lunedì 4 febbraio 2013

Lettera a una Vicina di Casa

Genitle Vicina di casa dal Volto Ignoto,
Le scrivo qui, a confine con la Sua parete. Abita qui da circa sei mesi ma nessuno l'ha mai vista eppure due volte a settimana sappiamo che c'è. E sa perchè lo sappiamo, Gentilissima Vicina dal Volto Ignoto? Grazie al Suo stereo.
Ogni volta che Lei è in casa la strada si riempie delle Sue note che, forzatamente fa ascoltare a tutta la strada.
Ora, non vorrei sembrarle scortese ma, mi creda, non la sopporto. Lei non c'è mai ma, quando c'è mi devasta la giornata. E non solo la mia, si fidi.
Voglio che Lei sappia che ho degli esami che non si prepareranno da soli, dei libri che non si legeranno da soli e dei pavimenti che no, nemmeno loro, si puliranno da soli. E mi creda io ci terrei davvero a fare tutte queste cose con i Sister of Mercy di sottofondo, invece Lei mi ha costretto prima a Love FM e ora mi costringe a Eros Ramazzotti! No, ma dico, Lei si rende conto di quanto siano dubbi i Suoi gusti musicali?
E non perchè io ascolto musica "alternativa" e Lei della sdolcinata robetta commerciale e nemmeno perchè la nostra è una guerra a ChiSparaIlVolumePiùAlto. Perchè forse Lei non ha capito che quando io alzo il volume non è per sovrastarla... il mio è un avvertimento.
Ed è un avvertimento anche quello della Signora Maria che si piazza davanti la porta di casa sua con la scopa in mano, bestemmiando sottolingua.
Detto questo, considerato il mio assurdo mal di testa e il conato di vomito represso, ci terrei a informarLa che se i miei prossimi esami dovessero avere pessimi risultati la colpa sarà solo Sua, che mi costringe a questo strazio, da ben due giorni.
La informo anche che sto per intraprendere una petizione contro il Suo stereo, vico Passero tutto appoggerà la mia protesta. E sappia che al mio fianco c'è la temeraria Signora Maria e con lei non si scherza. Si figuri che è arrivata a preferire le mie canzoni "quelle che fanno tanto rumore e c'è il cantante che dice un sacco di parolacce". Non so precisamente a quale gruppo si riferisca la Signora Maria. Però sappia che la Signora Maria non sbaglia mai, se la Signora Maria dice che domani pioverà la pioggia cade per non deluderla e per tutelarsi, se la Signora Maria dice che domani ci sarà il sole, il sole viene fuori perchè la Signora Maria sarebbe capace di impallinarlo, il sole. E se la Signora Maria dice che la mia musica, quella con i cantanti che dicono le parolacce e dicono cose strane inglese, è migliore della Sua, beh... deve essere per forza così.
Maria appoggia la mia protesta, perchè odia tutti, tranne me. Chè lei lo sa che io sono incazzosa e mi stanno tutti sui coglioni, proprio come a lei e, anche se ogni tanto le bestemmie me le prendo pure io, tutto sommato le sto simpatica.
Gentile Vicina dal Volto Ignoto, io l'ho avvisata. La Signora Maria la sta ancora minacciando con la scopa e se lei, "Puttana che sente questa musica di merda" (copiright della compostissima Signora Maria) non spegne immediatamente quell'aggeggio infernale (ancora copiright della signora Maria) saremo costretti a ficcarglielo in gola, perchè non vogliamo essere volgari (sempre copiright della Signora Maria).
Cordiali saluti,
la Sua vicina di nero vestita

giovedì 31 gennaio 2013

Il corvo e lo scrittoio



Marlene appollaiata sul davanzale stacca brandelli di carne cruda e li manda giù senza ritegno. Io la osservo seduta sulle scale senza disgusto e con poco interesse. Si ferma e mi guarda con i suoi occhi vitrei e neri, inclina la testa da un lato e la incassa nelle spalle, sembra voglia dirmi qualcosa ma non lo fa. Marlene è sempre così, arriva bussando alla finestra, strappa pezzi di carne e li manda giù senza pensarci, resta ad ascoltarmi e poi va via. Mi punta addosso i suoi occhi rotondi e neri come perle, sembra volermi dire qualcosa ma non lo fa mai.
Io sono sempre così, le apro la finestra, le lascio la sua porzione quotidiana sul davanzale e la osservo seduta sulle scale. A volte le racconto di me, delle mie giornate e delle mie tragedie, dei miei attimi di vita in frantumi, a volte piango con Marlene che mi sfiora il braccio e mi scompiglia i capelli.
Le canto qualcosa, “Sono come tu mi vuoi” dei CCCP è la prima cosa che mi viene in mente e gliela canto, mentre lei continua a sbrindellare pezzi di carne insudiciandomi di sangue il terrazzo. L’odore mi pizzica il naso ma non ci faccio caso, a lei piace così.
Guarda il cielo, probabilmente ha visto qualche uccello volare e lo sta puntando, lascia il suo pranzo e viene accanto a me. Io continuo a cantare, Marlene sembra non gradire la mia canzone. Provo a cambiare, la sua preferita “The House of Rising Sun” degli Animals. Cambia atteggiamento.
Io piango e canto, Marlene affonda nei miei capelli, mi sfiora il collo e canta con me. È sgraziata Marlene, gracchia e non azzecca nemmeno una nota ma, pare divertirsi. A modo suo, mi consola con i suoi silenzi e le sue grida sguaiate.
Mi alzo per prendere una sigaretta e lei mi viene dietro, nero vestita, puntandomi i suoi occhi vitrei. Mi sfiora il viso e si poggia sul mio braccio mentre una Camel prende fuoco tra le mie labbra.
“Sai Marlene, ti invidio, tu sei libera Marlene” le dico ingoiando lacrime grosse come biglie che mi si incastrano tra la gola e il cuore. Mi stringe il braccio e gracchia, come sempre. A modo suo mi consola Marlene.
Mi scompiglia i capelli e si liscia le penne per poi spiccare il volo.
Vedo il mio corvo sparire tra i comignoli, le faccio un segno con la mano così, per salutarla,
e resto a guardare il cielo. La sento gracchiare forte.
Il sole mi punge gli occhi, c’è un’atmosfera vagamente pseudo-primaverile. Rientro e aspetto che Marlene venga a bussare ancora alla mia finestra per mangiare la sua carne cruda mentre mi ascolta e, a modo suo, mi consola.
È un corvo sui generis la mia Marlene, libera e tenera. Non graffia mai con il becco, non punta mai ai miei occhi, nonostante me li guardi scintillare in continuazione. Non fa male Marlene quando con le zampe mi stringe il braccio e mi becca affettuosa la guancia e mi scompiglia i capelli.
Cos’hanno in comune un corvo e uno scrittoio, Alice, tu lo sai?
Caro Cappellaio, non sono Alice e non so nemmeno che tipo di corvi e scrittoi hai visto nella tua vita. I miei sicuramente qualcosa in comune ce l’hanno. Il mio corvo e il mio scrittoio conservano le mie tragedie e le mie gioie, i miei sogni e le mie sconfitte. Marlene se li porta nascosti tra le penne che ha sulle ali, il mio scrittoio se li tiene stretti nelle penne sparse qua e la, tra i libri e gli incensi.

martedì 29 gennaio 2013

Felix felicitas. O di come sono felice con te.



Felicità è svegliarmi e chiamarti e tu che non mi rispondi, tu che mi richiami con la voce impastata di sonno.
Felicità è tu che mi dici di venire da te così passiamo la mattinata insieme e poi pranziamo, io che ti dico che mi vesto e arrivo e faccio ritardo di quasi un’ora.
Felicità è piombare nella tua stanza con le finestre chiuse e tu arrotolato nelle coperte che sembri un orso in letargo e mi fai cenno di abbracciarti.
Felicità è infilarmi nel tuo letto come un’ombra e coccolarti e darti un bacio.
Felicità è ImprofumamiIlLettoCheQuandoNonCiSeiSentoIlTuoOdoreESembraCheSeiConMe e io che ti accarezzo perché sei tanto tenero.
Felicità è io che ti riempio di baci e ti guardo mentre dormi che sei bellissimo.
Felicità è io che ti canto Aghia Sophia e tu che la scambi per Requiem for a dream perché “è proprio uguale”.
Felicità è tu che mi dici che forse dovremmo alzarci a cucinare e intanto resti sopra di me e io non posso alzarmi.
Felicità sono le nostre risate e i tuoi piedi gelidi, io che ti parlo e tu che annuisci e poi RipetiCheNonTiHoSentita.
Felicità è guardarti fare avanti e dietro nella cucina mentre pensi a un piatto da preparare e io che resto vicino la porta e sorrido.
Felicità è tu che “Facciamo la carbonara” e io che annuisco.
Felicità è “Mettiamoci il salame che il prosciutto non ce l’abbiamo”.
Felicità siamo noi che ci lamentiamo uno dell’altro quando in realtà non abbiamo proprio niente da lamentare e ridiamo e ridiamo e ridiamo.
Felicità è io che sono stupida e tu che sei un idiota.
Felicità è io che giro la pasta all’infinito e tu che sbatti le uova.
Felicità è mangiare contenti che la PastaÈProprioBuona e tu che mi fai annusare il pepe per sentirne il profumo ma senza avvicinarmi troppo se no stranutisco.
Felicità è il dilemma del panino con le olive o quello con i semini del cazzo.
Felicità è tu che c‘hai gli occhi luccicanti quando mi parli di coltelli e di film western e io che rido con gli occhi luccicanti perché sei bello da morire.
Felicità è “Per un pugno di dollari in più, no aspetta, come cazzo si chiama?” e noi che ridiamo con le lacrime.
Felicità è tu che le canzoni di Ennio Morricone non me le canti che Dulce Pontes c’ha la voce alta e non ci arrivi.
Felicità è tu che mi fai vedere i programmi con i pesci per farmi passare la fobia.
Felicità è io che lavo i piatti e tu che mi baci il collo.
Felicità è tu che mi guardi mentre ho le mani bagnate e piene di schiuma e mi dici che sono bella. Felicità è SeiDiventataTuttaBellaCicciottaMiPiaci.
Felicità è fare il caffè e tu che aspetti il filtro però io mi sono abbioccata e non te lo do.
Felicità è bere il caffè e parlarti in spagnolo perché SonoLaTuaPoliglottaEFaremoTantiViaggiInsieme.
Felicità sono gli schiaffi affettuosi e i rotolamenti sul divano.
Felicità siamo io e te che ridiamo sempre e siamo scemi e ci vogliamo theeeeento beneeeee, ma davvero eh!
Felicità è tu che mi sollevi e mi sposti come se fossi un pupazzo e io che ti tocco la pancia perché MiPiaceLaTuaPancia.
Felicità è passare una giornata con te che mi prendi in giro e mi tiri le pacche sul culo.
Felicità è tu che vai all’officina e io che vado al negozio ma ci vediamo più tardi e il bacio sulla soglia della porta.
Felicità sono i baci e gli abbracci.
Felicità è che qualcosa per cui ridere ce l’abbiamo sempre.
Felicità è i viaggi che progettiamo e chi lo sa se li faremo mai.
Felicità è i tappi della birra che mi regali e io li tengo in tasca e le foglie di salvia e rosmarino nel portafogli.
Felicità è sentire il tuo odore sui miei vestiti e affondare il naso nella mia Gothsciarpa per sentirlo meglio mentre cammino per strada.
Felicità è tu che “Guarda che ‘sta sera vedo Lazio-Juve” e io che “E io che c’entro?”
Felicità è ricordarci di quanto tempo è passato e di quante cazzate abbiamo detto e fatto, però ci siamo divertiti.
Felicità è io che faccio le facce strane e tu che sorridi, chè sei proprio bello quando sorridi.
Felicità è tutto.
Felicità è tu e io.
Felicità è “Perché ci vogliamo così bene?” e “Boh, non ne ho idea” e gli elenchi di buoni motivi per volercene.
Felicità è stare con te che TantoNoiCiSiamoEPoiChiSeNeFrega.

giovedì 24 gennaio 2013

Madre Vaniglia

Vaniglia, è l'odore che più mi piace, dolce fino a farti sentire voluto bene, una specie di perenne abbraccio. Vangilia, non è il mio nome ma me lo sono appiccicato addosso dopo che qualcuno, durante una serata estiva calda e umida da far mancare l'aria, mi ha dettoaffondando la faccia nel mio collo "Sei la mia vaniglia". Quella persona è ancora accanto a me oggi.
Vaniglia è quello che dirò che sono stata quando i vent'anni saranno passati, è quello che racconterò di me guardandomi allo specchio e annusando i miei vestiti. Anche se di anni ne avrò trenta, sono sicura, continuerò e assere Vaniglia e le mie sciarpe saranno ancora impregnate di fumo di sigarette che si confonde con la dolcezza, sapranno ancora di vita e morte, di baci e dolori. E le mie borse saranno ancora stracolme di sogni e barrette di cioccolata, di agendine e libri, di me e un po' di voi.
Sono sicura che sarò ancora Vaniglia quando un giorno, se un giorno, sarò madre, quando la mia ipotetica sterilità andrà a farsi fottere e la mia pancia si gonfierà a dismisura rischiando di farmi saltare via il piercing.
Sarò ancora Vaniglia quano un giorno forse, avrò una figlia e le racconterò di come mi sono appropriata di questo nome. E le racconterò tutto, delle mie notti insonni, delle sbronze, delle nottate in spiaggi, dei falò, del vino e delle chitarre scordate, degli amici che ci saranno ancora, qualcuno forse sarà andato via ma ce lo ricorderemo ancora. Racconterò a mia figlia di come passavo le mie giornate a leggere libri e a sognare una vita migliore che non so se sarà arrivata e che, se non dovesse essere mai arrivata, si sarà sicuramente addolcita con il suo arrivo. Le racconterò dei viaggi e delle speranze, delle notti fuori casa, dei portoni chiusi e dei lavori cercati disperatamente.
Vaniglia, lo sarò ancora quando la vestirò e le dirò che le voglio bene e che sua madre è sempre stata un po' fuori di testa, le farò vedere le foto di quando avevo i capelli fuxia e lei riderà, a me scapperà una mezza lacrima di nostalgia. Le farò vedere i vecchi vestiti di Vaniglia e le foto e le racconterò di quando piangevo ai concerti e cantavo, di quando bevevo troppo e amavo il mondo.  Guarderà i miei tatuaggi e faremo scandalizzare gli alti genitori quando andrò a prenderla da scuola vestita di nero e con gli anfibi.
Sarò ancora Vaniglia quando le racconterò delle persone che ho amato, quando le racconterò che sua madre ogni tanto ha amato degli uomini e ogni tanto ha amato pure le donne. Sì, perchè a mia figlia racconterò di quando avevo una migliore amica e tra un caffè e un ti voglio bene ogni tanto ci scappava un bacio. Perchè non c'è niente di male a far sapere a tua figlia che, ogni tanto, delle donne le hai amate e sono state importanti per te . Perchè mia figlia deve sapere che se mai un giorno amerà una donna non dovrà avere paura e il suo primo pensiero non dovrà essere "Cosa penserà di me mia madre?". Il suo primo pensiero dovrà essere "Mia madre sarà contenta perchè mi ha insegnato che l'amore è ovunque, l'amore è amore che io ami un uomo o una donna".
Mia figlia saprà che sua madre, Vaniglia, non avrà alcun problema a vederla mano nella mano con un uomo o con una donna o magari in mezzo ai due.
Sarò ancora Vaniglia quando mia figlia avrà me e un padre, forse un'altra madre o, forse, avrà  me, un padre e una madre.
Io comunque sarò sempre Vaniglia.