martedì 12 aprile 2016

19 marzo 2015

Il 19 marzo 2015.
Ricordo il falò di San Giuseppe, il fuoco alto, il fumo negli occhi e l’odore della carne che mi dava il volta stomaco.
Ero venuta per portarti le mie agende, volevo che leggessi, che tu capissi anche quello che non ero mai riuscita a spiegarti. Due agende di terapia chiuse in una busta di carta, io chiusa nel cappotto di lana. Sola.
La testa mi gira, scambio due parole con la mia bisnonna vicino al fuoco e mi faccio coraggio. La bisnonna mi guarda.
Ti do la busta con le agende, tu non mi guardi neanche, io non riesco a parlare perché la lingua mi si è incollata al palato e non ha intenzione di schiodarsi di lì. Le gambe si fanno pesanti e tutto comincia a girare. Raccolgo le forze e, con un cenno alla bisnonna, corro verso casa, più veloce che posso.
Ricordo quanto è stato difficile salire le scale, non riuscivo a respirare, volevo piangere e le lacrime non uscivano.
Dieci gocce di Xanax e tutto sarebbe passato, dieci gocce di Xanax e non avrei avuto più le forze di pensare. Per l’ennesima volta, dieci gocce di Xanax. Ricordo il sapore di pompelmo sulla lingua, le gambe che cedono, poi il caos.
Mia madre che cerca di tenermi sollevata, io che non ho le forze di muovermi, mi sento un sacco vuoto , troppo vuoto per stare in piedi. Guardo la bisnonna disperata che mi dice che non è colpa mia, che passerà.
Mia bisnonna ha un vestito blu con le stelle gialle. Come cazzo si è vestita, penso.
E poi la corsa verso l’ospedale, mio nonno e mia nonna che mi fanno domande che sento da lontano, non capisco cosa vogliano da me. Mi chiedono se ho bevuto ma io non ho fatto niente.
Continuano a parlare ma io sento solo un’eco lontana.
La bisnonna mi tiene per mano, dice che non è colpa mia.
Sì che lo è, invece.
Ricordo l’attesa estenuante, i medici che non arrivano, un uomo sulla porta che mi guarda di traverso e non riesco a farlo andare via, mia nonna che si appoggia sulla bisnonna senza vederla minimamente.
Ricordo le corsie dell’ospedale viste dalla sedia a rotelle, l’infermiere tatuato che mi accarezza i capelli rosa e mi chiede se ho mai visto un concerto dei Placebo. Io che gli chiedo se gli piace il vestito della mia bisnonna e lui che mi dice che non la vede. Non la vede. Certo che non la vede. Mia nonna è morta nel 2003. La vedo solo io.
E poi la tac, una scatola buia dove non si può parlare ma nessuno mi ha detto che non posso piangere, l’infermiere che cerca insistentemente le vena per il prelievo e poi tutti a casa.
Continuo a ripetermi che è colpa mia.
Mi ricordo il freddo di quel 19 marzo 2015, mi ricordo gli amici di una vita che non c’erano e che non ci sarebbero più stati.
In una notte è cambiata la mia vita. Ho perso tutto in quelle dieci gocce di Xanax, insieme alle agende che ti ho dato che, chissà se hai mai letto.
Mi ricordo i giorni di solitudine che son arrivati dopo quella notte, le telefonate che non sono mai arrivate, le visite che non ho mai ricevuto, nemmeno un abbraccio se non quello di mia madre.
Mi ricordo la psicologa, i tentati suicidi, le pillole, le flebo, le crisi d’astinenza. Tutto.
Avevi promesso di restare per sempre  e non l’hai fatto, te ne sei andato quel giorno, insieme a tutti gli altri. Insieme a me.
Quella notte voi non c’eravate ma io sì e io non me la dimentico, non la dimenticherò mai.
Perché quella notte ce l’ho tatuata addosso, più a fondo degli altri tatuaggi che mi porto dietro.
Perché quella notte io c’ero ma voi no.

Nemmeno tu.